Dallo sciamanesimo a Stanislavskij – Dall’Yddish all’ipnotismo
L’incontro tra psicologia e teatro ritualizza ciò che è sempre esistito
Intervista con Felice Perussia a cura di Salvo Pitruzzella
Catarsi: I teatri della diversità, n.28
Riportiamo qui l’intervista a Felice Perussia, pubblicata sul numero 28 della Rivista Catarsi: I teatri delle diversità, a cura di Salvo Pitruzzella.
Il colloquio, che ruota attorno ai temi della psicotecnica e del lavoro realizzato nell’ambito del Laboratorio di ricerca e sviluppo, prende spunto dall’uscita di Theatrum Psychotechnicum per realizzare una rapida carrellata su alcuni temi di fondo che caratterizzano questo particolare stile di lavoro.
Il breve testo può aiutare a farsi una prima idea, in forma immediata e discorsiva, del lavoro concreto e di alcuni dei modelli di riferimento teorici e storici che stanno alla base dell’intervento di Counseling con le tecniche attive.
È un fatto conclamato che nel secolo appena trascorso i legami fra teatro e psicologia sono stati fitti e molteplici.
Molti studiosi e clinici, collocati in punti diversi dello spettro degli orientamenti psicologici hanno fatto ricorso a metafore teatrali per raccontare il funzionamento dell’essere umano, o addirittura utilizzato tecniche drammatiche per favorire processi terapeutici; molti direttori, registi e a pedagoghi teatrali hanno attinto a piene mani, più o meno consapevolmente, nel repertorio delle metafore psicologiche per rinvigorire processi teatrali.
Sono nate delle discipline che programmaticamente si collocano nell’intersezione tra i due ambiti, come lo Psicodramma e la Drammaterapia, nonché numerose pratiche di confine, di cui questa rivista ha costantemente portato testimonianza.
Le tesi di fondo dell’ultimo libro di Felice Perussia, docente di Psicologia della personalità all’Università di Torino, è che quest’incontro tra psicologia e teatro, ampiamente documentato nel testo, spaziando dallo sciamanesimo a Stanislavskij, dal teatro Yiddish all’ipnotismo, non è che la riattualizzazione di qualcosa che è sempre esistita, di un’area in cui i due ambiti non sono sostanzialmente distinguibili, che definisce col termine di Psicotecnica.
Perussia espone la sua tesi seguendo vari fili conduttori, con gran ricchezza di riferimenti – alcuni dei quali rappresentano delle straordinarie riscoperte -, cercando di delineare non tanto un modello teorico inclusivo, quanto uno sfondo integratore, che può aggiungere una consapevolezza storica e culturale di ampio respiro alle varie pratiche di confine.
Abbiamo incontrato il professor Perussia a Busto Arsizio (VA), nell’ambito di un innovativo corso di formazione per insegnanti e con lui abbiamo cercato di seguire alcuni di questi fili.
Vorrei iniziare questa conversazione chiedendoti una breve ricognizione sulla parola Psicotecnica, che mi sembra una parola chiave della tua ricerca.
Naturalmente, parto dall’etimologia: Psyche e Techné, ricordando che Psyche indica – non marginalmente – tutta una serie di cose, tra cui anche in qualche modo l’anima, ma non tanto.
È la farfalla.
Quando si va a vedere l’iconografia di Psiche, si può notare che quasi sempre viene rappresentata alata.
Quindi può essere vista non solo come anima, ma anche aria – per i Greci l’anima è aria: pneuma; un’aria però non completamente ariosa.
Le ali di Psiche sono ali di farfalla; ali non scheletrate, quindi, come quelle di un uccello, ma impalpabili, qualcosa che fa parte del corpo, leggerissima ma non eterea.
E questo rende bene l’idea dell’anima nel senso della psicologia: una caratteristica dell’essere umano che è impalpabile ma che esiste, non è solo immaginaria.
L’altra cosa è la Techné, che, è bene ricordarlo, per i Greci vuol dire soltanto “arte”, e non ha affatto il significato che le attribuiamo noi moderni, di arte che produce oggetti, “artefatti”, che danno testimonianza dell’azione dell’uomo.
Quindi oggi si dice ” tecnica” intendendo la tecnologia, il modo per produrre e modificare oggetti materiali, mentre in origine è semplicemente arte, quindi la capacità espressiva e reattiva.
Di conseguenza, sommando le due cose, la Psicotecnica è l’arte della mente.
E non dimentichiamo che “mente” deriva da “mentire”: è solo attraverso la testa che possiamo mentire, gli animali non mentono.
Quindi la Psicotecnica è l’arte della mente, la produzione creativa che nasce esclusivamente dai contenuti mentali.
Che non produce artefatti, anche se può lasciare tracce, come le tracce lasciate nella neve da un leone di montagna che corre.
Per me la psicologia è esattamente questo.
La psicologia ha però sempre tentato di definirsi come scienza più che come arte.
Vi sono due anime della psicologia: quella della ricerca, la dimensione scientifica che è il tentativo di oggettivare il mondo; è interessante, però non è molto più di questo esercizio.
Poi c’è la psicologia come azione, che non ha interesse in quella logica scientifica – “scrivere il libro della natura”, come dice Galileo – ma desidera esprimere questo libro, che non è della natura ma dei soggetti.
Quindi, la soggettività come elemento determinante di tutta la faccenda.
Esiste secondo te una sorta di Psicotecnica per così dire originaria, priva di connotazioni di intenzionalità?
Esiste eccome.
Io credo fermamente che sia un’attitudine naturale umana.
Poi la si pratica intenzionalmente, e la si studia, parzialmente, perché il mondo moderno, il mondo produttivo, è essenzialmente mimetico, e non poetico.
Ricordo sempre che la poiesis è il contrario della mimesis, cioè è espulsione dei contenuti interni, psicologicamente parlando; mentre la mimesis è acquisizione del mondo, quindi impressiva, mentre la poiesis è espressiva.
Questa attitudine espressiva è posseduta da tutti, e tutti in qualche modo la sviluppano.
Però, poiché il nostro mondo è costruito sulla mimesis, quindi sull’acquisizione delle cose che il mondo ci propone – né potrebbe essere altrimenti, perché senza tale acquisizione non si può produrre -, ecco che si perde l’abitudine, e questa disposizione non facilita.
Io sono fermamente convinto, come ho scritto nella prefazione al libro di Gigi Dotti, che “bambini si nasce; adulti si diventa (se va male)”.
Perché la capacità creativa, poetica, dell’infanzia è straordinaria, e viene solitamente uccisa durante l’adolescenza.
Dopodiché, alcuni riescono a sopravvivere a questo schock, e riescono a mantenere vivi dei frammenti di creatività; questi sono perlopiù soggetti diagnosticati come “isterici”.
Altri invece s’intronano completamente e abbandonano la propria creatività, non perché non la mantengano dentro di sé come il fuoco che cova sotto la cenere, ma perché non si autorizzano, non si lasciano essere espressivi.
Allora è necessaria l’acquisizione di una certa modalità, che consiste fondamentalmente nel lasciare che succeda quello che sta succedendo, una cosa molto semplice da dire, molto sottile da fare, perché devi proprio dimenticarti di dare una direzione alle cose.
Questa è una cosa che s’impara dall’esperienza, lavorando con gente in situazioni in cui è possibile esprimersi direttamente.
Sperimentandolo su di sé, s’impara a proporlo agli altri, aiutandoli ad autorizzarsi ad esprimere quello che hanno già dentro.
Il compito del terapeuta è quindi autorizzare l’espressione…
Chi cura è il paziente.
Paziente è una parola orrenda, se non del suo significato originario, che è “colui che ha un’emozione”.
Lo psicologo è semplicemente colui che gli permette di curarsi.
Nel tuo libro, tu parli molto di trance. Questo è un tema caro al teatro del Novecento, ed è in generale contrapposto al tema del controllo. Come vedi questa polarità?
Dicevo prima che quelli che mantengono un minimo di creatività sono solitamente detti isterici.
L’etimologia che ha attribuito Freud a questo termine è semplicemente ridicola, anche perché in greco il termine uster indicava semplicemente la pancia, maschile o femminile; l’utero è chiamato metra, da cui deriva la parola “madre”.
Isteria deriva da Hyster, già secondo Lattanzio, che indica gli abitanti dell’Istria; ovverosia: gli attori.
Le espressioni usate nell’antichità per definire gli attori sono hystrio o hypocrites (che significa: colui che risponde).
Il riferimento all’Istria è nato a Roma per sottolineare che gli attori – tutti gli attori in Roma antica – sono etruschi.
Non dimentichiamo che buona parte di quella che noi consideriamo cultura latina è è in realtà di origine etrusca.
L’arte pantomimica a Roma era etrusca ed era detta o isteria o ipocrisia.
Piano piano, in un percorso che è possibile rintracciare negli autori medievali, queste espressioni sono passate ad indicare la finzione: poiché l’attore finge, allora tutti quelli che fingono sono ipocriti o isterici.
E infine oggi si usa il termine ipocrita per definire una persona che inganna: dice qualcosa – come fa l’attore – che pensa piaccia al pubblico, anche se non la pensa personalmente.
Ipocrita oppure isterico; ma il gioco dell’isterico segue un’altra strada.
Che cosa fa in pratica l’attore etrusco?
Fa il pantomimo; cioè interpreta da solo tutte le parti.
Fa in scena quello che tutti noi facciamo ogni giorno quando raccontiamo storie.
Siccome gli etruschi non si capiscono, perché spesso non parlano latino o lo parlano male, fanno delle messe in scena in cui il parlato non è centrale.
Quindi la faccenda è soprattutto mimica, diremmo quasi clownesca – quella che poi sarà la Commedia dell’Arte.
In questo quadro, isterico vuol dire semplicemente attore.
La scelta di definire uterina l’isteria è ovviamente – nel caso della psicanalisi il dato è plateale – un modo di limitazione della dimensione femminile.
Non dimentichiamo che Freud discende da una tradizione religiosa, quella ebraica, in cui, come in tutte le religioni monoteiste, la donna è relegata in secondo piano.
Cosa c’è di meglio che attribuire la capacità di esprimere, la disposizione attoriale-isterica al mondo femminile?
Perché un bravo uomo produce, non si esprime.
Nella tradizione scientifica ottocentesca, l’isteria è stata chiamata in molti altri modi: mesmerismo, sonnanbulismo, ipnosi ecc.
Questi termini si riferiscono alla facilitazione di stati di coscienza che sono diversi dalle normali condizioni di veglia.
È interessante a questo punto soffermarsi un attimo su Mesmer, che è stato il primo psicologo scientifico della storia.
La sua attitudine non è né mistica né magica, anche se oggi siamo abituati a intenderlo così: basti pensare che tra i suoi sostenitori c’è Kant, che non era certo un aspirante mago.
Mesmer voleva estendere la teoria della gravitazione universale di Newton ai rapporti interpersonali; ciò che gli psicologi del Novecento hanno continuato a fare, pur chiamandolo in altri modi.
La sua pratica si basava sul “magnetismo animale”, che è un’espressione coniata da Galvani; Mesmer è convinto che il fluido che agisce è di natura fisica, quindi utilizza strumenti come conduttori.
Per fare che cosa?
Per evocare delle condizioni che sono assolutamente normali ma che di solito, nella nostra cultura, sono molto inibite; normali nel senso che tutti noi quando sogniamo diventiamo isterici ipnotizzati, solo che lo diventiamo all’interno di noi stessi, non nelle azioni nel mondo esterno.
Attraverso un processo, che di solito è attribuito alla volontà del magnetizzatore, noi possiamo spostare leggermente il confine tra le due condizioni, ed entrare in quello stato detto ipnotico (da hypnos, sonno), partecipando contemporaneamente sia alla veglia sia il sonno.
Una delle caratteristiche tipiche di questa condizione è la concentrazione dell’attenzione in un campo limitato.
In questo campo limitato, si sposta leggermente la soglia tra quello che è cosciente e quello che non lo è, e una serie di elementi, soprattutto emotivi e di memoria connessa con le emozioni, possono emergere in misura maggiore.
Questa è la condizione ipnotica; non dobbiamo pensare all’ipnosi da baraccone, in cui un soggetto è completamente succube dell’ipnotizzatore: la normale condizione ipnotica è molto più leggera, è quella di un soggetto che entra in questa condizione e non se ne accorge nemmeno; è una condizione molto vicina a quella della perfetta veglia.
Allora possiamo dire che tutte le situazioni di psicotecnica, di azioni in cui la persona agisce dentro condizioni che gli permettano di esprimere l’interno, sono di trance, ovvero ipnotiche, solo che lo sono a un livello minimo, di un leggero spostamento della soglia.
Poi si può andare anche più avanti, fino al sonno: la mia esperienza mi dice che non è inusuale che le persone che tendono ad immergersi di più in questo stato, sia tra gli attori sia tra il pubblico, alla fine s’addormentano.
Questo è ciò di cui si occupa la psicologia: produrre stati di trance minima (o massima: dipende dal contesto) che permette di esprimersi.
La differenza tra lo sciamanesimo e la psicologia è che in quest’ultima lo sciamano è il paziente, non lo psicologo.
Si possono conciliare sciamanesimo e psicologia?
Il problema è il modo cui si è affermata la psicologia del Novecento.
Un secolo fa non c’erano né pazienti nei psicologi; ricordo che negli Stati Uniti l’idea che la psicoterapia sia fatta dagli psicologi è del secondo dopoguerra, non prima.
Freud in America ebbe un grande successo presso gli psichiatri; la maggior parte degli psicologi lo ignorarono.
E lo stesso Freud nei suoi scritti non usa mai il termine psicologo o psicoterapeuta, ma sempre quello di medico.
D’altra parte, nelle definizioni dell’OMS la parola psicoterapia è riservata alla cura della schizofrenia, della depressione profonda, dell’Alzheimer e di poche altre cose; il resto è counseling psicologico.
In conclusione: la medicalizzazione della psicologia è stata una mossa astuta, perché ha permesso di reintrodurre tutta questa tradizione stregonesca, o sciamanica, questa tradizione della mente che costruisce il mondo, come se fosse scientifica.
Freud reintroduce queste correnti ipnotiche e mesmeriste sotto un altro nome per permettere ad esse di esistere, in un certo senso.
Perché contro l’ipnosi e il mesmerismo c’erano dei pregiudizi di tipo scientista, che hanno fatto sì che una buona parte della letteratura su questi argomenti, floridissima dalla fine del Settecento a oggi, sia difficilmente reperibile.
La dimensione sciamanica, la possibilità di fare un viaggio dentro la propria mente, è qualcosa che abbiamo tutti; pensa solo ai momenti che tutti attraversiamo di reverie, di immaginazione poetica.
Che cosa facevano in pratica gli ipnotisti del Settecento e dell’Ottocento?
Fondamentalmente impersonazione; cioè: facevano teatro.
E questo meccanismo viene usato per recuperare le memorie antiche: Janet, il maestro di Freud, lo fa continuamente.
Stimola lo stato ipnotico, cerca i collegamenti tra le maggiori manifestazioni di disagio e gli episodi connessi con queste manifestazioni, e poi li ri-recita insieme col paziente, con esito positivo.
Non dà prescrizioni, compiti post-ipnotici da eseguire: questa è una versione comportamentista dell’ipnosi.
Quindi l’ipnosi riguardava anche l’espansione delle possibilità della persona?
Sì.
Non solo rivivere la storia ma reinventarla in modo che funzioni.
Che poi è una costante di tutte le pratiche psicotecniche: non ti limiti a mettere in scena, ma faciliti anche un’evoluzione positiva; un passo avanti, qualunque cosa esso sia.
In questo quadro, l’aspetto, tipico del teatro, dell’esporsi, del lasciarsi guardare, che cosa c’entra?
C’entra perché in tutte le forme di psicotecnica uno degli obiettivi è farsi guardare da se stesso.
La persona vede se stessa; è come se il faro si spostasse dal fuori al dentro.
La percezione normale e degli stimoli esterni; la percezione poetica è degli stimoli interni.
Quando si dorme si vive di questo, di contenuti interni; quando si è svegli di contenuti esterni.
Questi non sono mai egemonici, ma sempre compresenti.
Nella psicotecnica, la persona si guarda dentro; invece di portare il fuori al dentro, porta il dentro al fuori; prende i suoi contenuti interni, e, diciamo così, li proietta all’esterno, mentre normalmente avviene il contrario.
In realtà chi fa queste cose ha pochissimo di esibizionismo; essendo in uno stato di leggera trance, la sua attenzione è concentrata, è come se il mondo non esistesse.
Giro gli occhi verso l’interno (in-sight, o inner sight), e lascio che l’interno diventi visibile.
Salvo Pitruzzella, che ha realizzato l’intervista, si occupa da molti anni di ricerca e sperimentazione teatrale, specialmente in ambito formativo. Conduce gruppi di Drammaterapia, di Psicodramma e di Teatro Creativo sia in campo clinico che in campo socio-educativo. Il suo testo più significativo è Persona e soglia: Fondamenti di drammaterapia, Roma, Armando, 2003 (che è uscito contemporaneamente anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, con il titolo Introduction to dramatherapy: Person and threshold, London New York: Routledge ). Ha pubblicato anche: Manuale di teatro creativo: 200 tecniche drammatiche da utilizzare in terapia, educazione e teatro sociale (Milano, Angeli, 2004).
PER SAPERNE DI PIU’
Puoi approfondire alcuni aspetti di Theatrum Psychotechnicum su questo stesso sito.
Di Theatrum Psychotechnicum è stata prodotta una brillante Scheda di sintesi, a cura di un gruppo di colleghi in formazione alla psicotecnica dello Psicodramma.
E’ stata prodotta anche una Mappa Mentale di Theatrum nel suo insieme, realizzata dalla mente effervescente di Ugo Merlone.
Per capire fino in fondo questo testo, merita anche approfondire il suo complementare, che lo ha preceduto, relativo alla Espressione Mimetica della Persona che caratterizza la Storia del Soggetto (prima che alla Formazione Poetica della Persona che caratterizza il Theatrum, come qui)
- Ragionando tranquillamente, tra persone competenti, emergono aspetti che a volte rimangono tra le righe del testo scritto. Grazie Salvo!

Felice Perussia, quarant’anni abbondanti di lavoro psicologico con i gruppi, specie come mastro (e apprendista) di psicodramma & ipnosi, ma anche oltre trent’anni come professore ordinario di Psicologia Generale (Personalità, Storia) all’Università – Oggi, come sempre, possiamo crescere insieme (Ci aiuterà!)