Cronache dal Castello di Elsinore

 

Prefazione al volume: Boria G., Psicoterapia psicodrammatica: Sviluppi del modello moreniano nel lavoro terapeutico con gruppi di adulti, Milano: Angeli, 2005, 15-18.

 

Perussia F., Cronache dal castello di Elsinore

“Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, che non ne immagini la tua filosofia”. Lo ha detto Amleto. Quindi: deve essere vero. Poiché ad Amleto parlano gli spiriti. E gli raccontano la verità.
Fileo: amo, ho caro, accolgo, curo. In questo caso: la sapienza. Tale appunto è la speranza delle filosofie: la comprensione, ovvero il prendere con sé. E da sempre, in quel territorio dell’amore sapienziale che i moderni hanno voluto battezzare con il termine di psicologia, questo sogno ha preso molte direzioni, incamminandosi però principalmente lungo alcune strade, simili e contrapposte. O meglio: parallele; nel senso che corrono vicine senza propriamente toccarsi.
Ricordando che quanti hanno intrapreso la filosofia non avrebbero capito che cosa la psicologia potesse essere propriamente. Poichè quello che amavano, e accoglievano e curavano, caso mai, era lo pneuma: il respiro, il soffio, lo spirito che aleggia, che entra ed esce attraverso di noi.
Correvano gli anni ’70 dell’Ottocento quando, al fondatore (nel 1835) del Laboratorio di Fisica nell’Università di Lipsia, maturò un’idea. Aveva dedicato vari importanti studi alla comprensione di questo spirito: e cioè una Anatomia degli angeli (1825), un Manuale della vita dopo la morte (1836) e uno Zend Avesta o sulle cose del cielo e dell’al di là (1851). Voleva infatti meglio capire l’anima, entità immateriale, così fondamentale nel determinare il nostro essere vivi e presenti, eppure così difficile da cogliere e da materializzare.
Forte della raggiunta competenza che gli veniva riconosciuta nello studio della fysis, della natura appunto, pensò dunque di completare i propri sforzi trattando anche del pneuma. Gustav Theodor Fechner, grande esperto di spiritismo, si sforzò dunque di estendere la propria attenzione anche alla fisica dell’anima stessa. Ma, ben consapevole che il respiro, il pneuma appunto dei Greci, nella sua materialità concreta non poteva che essere una metafora, scelse di usare un altro termine, più vicino a quel soffio vitale che sentiva di natura concreta ma non propriamente materiale, e dedicò la propria ricerca all’Amore di Psyche.
Abbracciò dunque il sogno orfico che Pitagora, quale lo conosciamo nel resoconto di qualche partecipante alle sue riunioni, e quale questi aveva cercato di cogliere nei suoi Elementi: il senso del mondo nell’armonia dei rapporti matematici. E cercò di studiare la natura ritmica dell’anima, intitolando appunto il suo lavoro agli Elementi di psicofisica (1860). Scrivendo così un trattato che tutti gli studiosi dello spirito hanno sentito nominare. E siccome c’era da quelle parti un filosofo allievo del naturalista Helmoltz, intelligente e portato a simili curiosità, gli assegnò il compito di studiare più sistematicamente tale spiritismo. Cosa che questi fece mettendo in piedi, come d’uso, un laboratorio.
Di qui, per l’ennesima volta (ché nella lunga storia di Psyche il gioco delle parti si è sempre ripetuto), l’ennesimo divaricarsi della via. E Wilhelm Wundt inseguì il sogno della nuova fisiologia: quello di dare un logos (una parola e un discorso razionalmente compiuti) alla fysis (alla natura, appunto). Ma, questa volta, nel caso dell’uomo e della sua natura animata.
Due modi di avvicinare la questione, quello di Fechner e quello di Wundt. L’uno che si abbandona ad analisi e pensieri, dove la ragione è un modo attraverso cui l’anima si sviluppa da se stessa, riflettendosi: il pensiero si osserva e ne deduce. L’altro che si circonda di manometri e di alambicchi e di provette, per regalare una natura materiale anche alla mente: dove la ragione è ratio (il calcolo matematico, ovvero la statistica e l’equazione, dei latini) e dove il pensiero è realtà (ha la proprietà di essere res: una cosa). La fantasia filosofica della mente che trova la propria natura in se stessa e attraverso se stessa; la fantasia naturalistica delle cose che possono anche essere animate (da una qualche forza che è una cosa anch’essa). L’una che si sostanzia nei pensieri, e nei libri che ne lasciano traccia e testimonianza. L’altra che si sostanzia nell’orologio di Newton (che qui misura i tempi di reazione) e nella nuova scoperta dell’elettricità (l’impalpabile ma potente dynamis del sistema nervoso).
Ma, della grande tradizione che sempre ha accompagnato la ricerca, resta sullo sfondo almeno un punto di vista. Qui ce ne sono infatti soltanto due. Conosci te stesso, suggeriva Socrate; e questo cercano di fare i filosofi ragionatori. Prova e riprova, isolando ciascun singolo fenomeno dall’economia naturale e riproducendolo in vitro nel laboratorio; e questo cercano di fare gli scienziati sperimentatori. Manca però appunto un terzo modo: il respiro che soffia, la natura che vive in vivo.
Manca perché non c’è? No di sicuro. Visto che è il più antico di tutti, quello che ha preceduto ogni ragionamento e ogni laboratorio (di fisica o di quant’altro), essendo connaturato all’esistenza umana e quindi presente almeno da quando il nostro animale si è sforzato di camminare su due sole delle sue quattro zampe, cercando di trascendere la propria natura animata, per riflettere su se stesso e per misurare il mondo attraverso i propri passi.
Esserci. Niente di più, nè di meno. Sono. Senza alcuna necessità di un pensiero che mi autorizzi ad essere. Vivo. Sono dentro la mia vita. Sento, nella mia natura di eco del mondo. Provo, nella mia natura sensitiva. Vedo, nella mia natura veggente. Parlo, nella mia natura oracolare. Insomma: il mio cuore pulsa.
E, sentendo il mio cuore battere, non cerco di capirne il significato, non costruisco teorie che traducano questo suono e questo senso in parole che pretendano di esaurirne il ritmo, che ben basta a se stesso. Non cerco di misurarlo con un qualche strumento per ridurlo a una qualche cosa, e separarlo dalla sua natura animata. Poichè il mio cuore non è dentro di me: il mio cuore sono io. Il mio cuore batte. Io batto.
Solo che, mentre batto il mio cuore, e il mio cuore batte me, e il mio piede batte a terra, e piego il ginocchio, non penso né scrivo. Ma pulso, e soffio, e vivo, e volo.
La terza strada, la strada del camminare, del muoversi e del danzare, la via che percorriamo noi aeronauti dello spirito, non si pone a riflettere sul come e sul perché, non si pone a trovare un’altra ragione, diversa e separata, per il fatto di esserci. Né vuole sapere quanto e quando e dove e come e perché e rispetto a che cosa. È una navigazione senza sestante, che guarda alle stelle per ammirarle e diventare loro, senza pretendere alcuna giustificazione del proprio fendere il mare e il cielo.
E si pone allora un problema. Almeno rispetto al sogno della ragione, alla fantasia illuminista di portare luce là dove è buio, invece che semplicemente spostare il cerchio dell’inesorabile oscurità, nella speranza che i lampi dell’elettricità possano dare un nuovo volto e un nuovo spessore alla diafana condizione dei fantasmi. La terza strada non scrive e non misura. Non si osserva, ma vive. E vede. E sente. E ascolta. Più che parlare.
La terza strada non si trova ben allineata negli scaffali delle biblioteche. La terza strada è un gioco di bambini. Si nasconde, o meglio si manifesta, solo nella sostanza di questo momento che vive, e quindi il suo luogo di elezione è il choros, l’agorà, il theatron, o anche le tavole del palco. Spesso rappresentata da una compagnia di dilettanti, di guitti, di straccioni, ovvero di gente comune, di persone.
E quanti hanno letto Golfaden? O Janet? O Stanislaski? O le parole degli sciamani tungusi? Anche perché c’è da chiedersi: hanno davvero scritto qualche cosa? E gli scritti, che eventualmente ne abbiamo, sono davvero la loro esistenza, il loro esserci? E il nostro esserci con loro? E, meglio: è possibile che uno scritto sia ciò che soltanto mentre esiste c’è? È possibile che il nostro respiro possa avere davvero qualche cosa a che fare con dei segni neri su una pagina bianca?
Il che non impedisce a qualcuno di provarci. Narrare quanto accade, per lasciarne traccia, per permettere ad altri di sognare e di provarci ancora. E questo tenta di fare Giovanni Boria, con cui mi capita da tanto tempo (da quanto tempo? posto che di tempo si tratti) di navigare. Cercare di lasciare una testimonianza per qualcosa che non è testimoniabile, ma di cui comunque si può trattare. Come i racconti del bardo nelle tende, sulla lontana isola avvolta dalle nebbie, durante l’inverno.
Fa male? No di sicuro. L’esperienza non può essere raccontata. Ma è possibile lasciar fluire il racconto di ciò che forse è successo, e di ciò che forse succederà. E l’atto del narrarla permette ad altri di sentire che questo può essere molto più vero di tante realtà. Il soffiare dei soffiatori vive soffiando. Ma anche il racconto, in fondo, richiede un soffio per manifestarsi. E se anche non può essere la sostanza dei pensieri mentre aleggiano attorno a noi, può certo offrirci un’insegna per indicarne la direzione.
E dunque lasciamoci andare a questa bella historia, a questa theoreia (a questo racconto) così ben narrata dal cuore di un bardo che pulsa, e di noi con lui. Come Ulisse riapparso dall’al di là, o come Dante risvegliatosi momentaneamente dal suo sogno, Giovanni Boria ci rappresenta la sua Commedia. Quanto meno, oltre a darci la sensazione che ciò sia possibile, e regalarci qualche nuova chiave per aprire una porta che abbiamo attraversato nel bel mezzo del nostro cammino, ci dà il senso di un testimone che ci ha provato davvero. E forse ci è riuscito.
Non ci credete? Date retta a Boria: Credeteci! E ringraziamolo. Perché “Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, che non ne immagini la tua filosofia”. Come ha detto Amleto. Il che deve essere vero. Poiché ad Amleto parlano gli spiriti. E gli raccontano la verità.

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *